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domenica 16 maggio 2010

L’albero di Luis Sepùlveda




Sull’isola di Lennox c’è un albero. Uno. Indivisibile,verticale, ostinato nella sua terribile solitudine di faro inutile e verde nella nebbia dei due oceani.
E’ un larice ormai centenario, l’unico sopravvissuto di un piccolo bosco abbattuto dai venti australi, dalle tempeste che fanno apparire ridicola l’idea cristiana dell’inferno, dall’implacabile falce di ghiaccio che taglia il Sud del mondo.
Come è arrivato in quel posto riservato al vento? Secondo gli isolani di Darwin o di Picton, dentro il ventre di qualche ottarda, sotto forma di seme migrante. Così è arrivato, così sono arrivati, si sono fatti strada nelle crepe degli scogli, vi hanno affondato le radici e si sono innalzati con la verticalità più ribelle.
Erano venti e più larici, dicono i vecchi delle isole, che non hanno neppure la metà degli anni dell’albero sopravvissuto e ne hanno trascorsi ben pochi in questo mondo dove il vento e il freddo sussurrano: “Vattene da qui, salvati dalla follia”.
Sono caduti uno dopo l’altro secondo la logica delle maledizioni marine. Quando il vento polare ha piegato il primo, e il tronco si è spezzato con un rumore terribile, che si sentirà di nuovo - dicono i mapuche – solo il giorno in cui si romperà la spina dorsale del mondo, è cominciata la condanna dell’ultimo albero dell’isola. Ma il compagno caduto aveva nei suoi rami il vigore di tutti i venti sofferti, di tutti i ghiacci sopportati, e la sua memoria vegetale ha sorretto gli altri.
Così hanno tenuto duro, hanno portato avanti la sfida di toccare con i loro rami il cielo basso della Patagonia, e così sono caduti, uno dopo l’altro, per sempre. Senza piegarsi in vergognose agonie si sono abbattuti sugli scogli dalla chioma alle radici e i venti assassini hanno detto: “E’caduto, è vero, ma così muore un gigante.”
Ne è rimasto soltanto uno sull’isola. L’albero. Il Larice che si scorge a stento navigando nello stretto. Circondato dai suoi morti, impregnato di memoria, momentaneamente in salvo dai taglialegna perché, solo com’è, non vale la pena attaccare e salire quelle rapide scogliere per abbatterlo.
E cresce. E aspetta.
Nella steppa polare altri venti affilano la falce di ghiaccio che arriverà sull’isola, che
inesorabilmente gli morderà il tronco, e quando arriverà il suo giorno moriranno per sempre con lui anche i morti della sua memoria.
Ma mentre aspetta l’inevitabile fine, resta lì, verticale, sull’isola, altero, orgoglioso, indispensabile stendardo della dignità del Sud.

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