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lunedì 6 dicembre 2010

CONTROINFORMAZIONE del 9 maggio 2005

In gioco ci sono 40 mila posti di lavoro solo per quest’anno, e 90 mila sarebbero a rischio tra il 2006 e il 2007. Mentre 30 mila aziende sono ormai sull’orlo della crisi. Nei primi tre mesi dell’anno le importazioni in Europa dalla Cina di reggiseni sono cresciute del 263%, quelle di t-shirt del 358%, di pantaloni del 738, di maglioni dell’895%,delle scarpe del 1.800%, con un conseguente abbassamento medio dei prezzi di oltre il 40%.Questo perché da gennaio 2005 quanto previsto dall’Accordo Multifibre (gennaio 1974) si è avverato: abbattimento dei tetti alle importazioni, Mercato Libero.Com’è possibile che una maglietta proveniente dalla Cina costi un decimo della stessa maglietta prodotta in Italia? La MATERIA PRIMA costa sostanzialmente la stessa cifra per gli imprenditori italiani e cinesi anche se in Italia è interamente importata mentre la Cina è nello stesso tempo grande produttrice e grande importatrice. Stesso discorso per quanto riguarda i MACCHINARI e la DOTAZIONE TECNOLOGICA : in Italia vengono prodotti macchinari all’avanguardia; la Cina compra da tutto il mondo, ma le dimensioni delle imprese sono 10-15 volte superiori a quelle italiane consentendo prezzi migliori sull’acquisto (economie di scala) oltre al fatto che godono di forti sovvenzioni pubbliche sia sullo stesso investimento tecnologico e sia sull’energia impiegata (molto gravosa nel tessile).Sempre in Cina è totalmente assente la voce innovazione, ricerca e sviluppo mentre in Italia dovrebbe incidere del 3% sul fatturato. Il CAMBIO favorevole che vede lo Yuan sottovalutato del 30% sul dollaro e l’Euro sopravvalutato del 10/15% rispetto alla moneta statunitense, può consentire ai cinesi sia margini inferiori di profitto e sia il dumping (vendite sottocosto) garantendosi la penetrazione e l’aggressione dei mercati. Differenti anche i CANALI di DISTRIBUZIONE : per la merce cinese la prassi prevalente è un’asta (spesso via Internet) che prevede un importatore che offre la domanda ponendo un prezzo (base di partenza) e scatenando un’asta (al ribasso) fra i produttori. La merce, che viene spedita in container via mare, viene ritirata ed immediatamente piazzata ai rivenditori, con ricarichi tra l’80% e il 400% (a seconda se viene marchiata con una firma di prestigio).Il prodotto italiano segue invece i canali tradizionali distributivi che prevedono gli agenti delle aziende, i commercianti e tutti quei processi di intermediazione che moltiplicano per quattro o per cinque il “cartellino”. Ma la vera forbice si allarga vistosamente per quanto riguarda il COSTO del LAVORO : al grado di utilizzazione degli impianti sono connesse le ore lavorate da un addetto e che sono 1.600 all’anno in Italia contro le 2.200 fatte in Cina. La media del costo del lavoro in questo settore è in Italia di 15,6 dollari all’ora, in Cina è di 0,41 dollari all’ora dove per realizzare una maglietta occorrono 15 minuti e 250 minuti per un abito da uomo.(Il Venerdì di Repubblica 06/05/05)Anche in Cina, quindi, ci troviamo di fronte ad un potere politico (anch’esso e presunto comunista) incapace ormai di gestire e limitare un potere economico oligarchico che, pur trovando una sensata giustificazione rispetto al problema demografico, sfrutta di fatto la popolazione costringendo l’Europa, invertendo decisamente la rotta, ad adeguarsi su una politica che potrebbe deregolamentare i diritti dei lavoratori. Ed intanto, tra la reintroduzione delle “quote”, visto che la Cina è nel Wto (Organizzazione Mondiale Commercio), l’imposizione dei dazi, i bla-bla sulla crescita economica, sulla qualità e sui decreti di competitività, il dibattito tra “protezionisti” e “liberisti” infuria nel caos generale. La stessa multinazionale NIKE ultimamente, presa dal rimorso della propria Responsabilità Sociale, ha ammesso tutte le irregolarità presenti nelle “proprie” aziende operanti soprattutto nell’Est Asiatico.In verità chi dovrebbe piangere se stesso sono coloro che hanno provocato e voluto questo libero mercato selvaggio nell’ottica di una sfrenata globalizzazione liberista, che limita le eventuali funzioni regolatrici, garantiste e solidali dello Stato e che, come dice T. Negri (Impero 2002), rimarrà parziale e non totalmente compiuta economicamente, proprio perché deve risultare a discapito dei paesi più poveri del pianeta. Negri è arrivato addirittura a dedurre che forse realizzando la reale e completa globalizzazione della Terra (e quindi dei suoi problemi), si potrebbe, allora, ricercare soluzioni comuni e meno gravose, con beneficio per tutti. Noi, riteniamo essenziale e fondamentale intervenire nel mondo del Lavoro, al di là del Continente dove la prestazione lavorativa venga svolta: sul carico delle ore lavorate (giornaliero ed annuale); sulla manodopera impiegata (femminile e minorile); sui salari; contro tutti i tipi di maltrattamento; sulla sicurezza dei luoghi di lavoro; sull’impedimento esercitato nella creazione di Organismi e Strutture Sindacali. REGOLE universali e “globalizzate” del mercato del lavoro, se globalizzazione deve essere, a tutela dei diritti e del miglioramento sociale di tutti i lavoratori e le lavoratrici. Questa deve essere la tendenza prioritaria per ottenere l’ obiettivo in termini di correttivi significativi, tenendo conto della seria spinta dei “movimenti” ed obbligando tutti i Paesi al comune rispetto dei diritti, delle persone e della qualità della vita. Nel ’99, il vescovo Van Thuan, era in Messico a parlare a 50 mila giovani. Gli offrirono un berretto. Lui ne guardò l’interno: era “made in Vietnam”. E questo lo condusse alla riflessione: “No alla produzione a basso prezzo senza considerare le persone. Il lavoro non deve essere solo mezzo per vivere con dignità ma reale espressione culturale, per una civiltà del lavoro che non esclude i paesi poveri” .

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